Cornice Teorica
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L’APPROCCIO CENTRATO SULLA PERSONA
La cornice teorica in cui mi sono specializzata e che orienta il mio lavoro è una corrente della Psicologia Umanistica: l’Approccio Centrato sulla Persona (ACP), fondato dallo psicologo statunitense Carl Ramson Rogers negli anni ’40. Come ogni altro orientamento teorico, l’ACP propone una sua specifica modalità di vedere e leggere la persona, il suo disagio psicologico e la relazione d’aiuto.
Rogers parte dalla concezione che ogni essere umano è unico e irripetibile e che ogni persona, se posta nelle giuste condizioni, è capace di seguire un’interna spinta verso l’autorealizzazione e l’autoregolazione. Questa spinta è una tendenza innata a realizzare le proprie potenzialità, a crescere e migliorare, realizzando così il proprio percorso di vita. Secondo questa visione, la persona è la migliore esperta di se stessa nel proprio processo di cambiamento e di crescita. Tale psicologia sottolinea l’importanza di potersi fidare delle proprie esperienze soggettive. Di conseguenza, la modalità di fare diagnosi si focalizza sul funzionamento della persona più che sui sintomi riferiti.

Rogers ha una visione positiva e ottimistica della natura umana. La persona è degna di fiducia ed è caratterizzata da una forte spinta a realizzare le proprie potenzialità: la tendenza attualizzante. Si tratta di una forza benigna, creativa e innata nell’essere umano, capace di spingere ognuno verso l’accrescimento e la propria autorealizzazione. Questa forza quindi porta la persona a raggiungere il miglior adattamento possibile per lei. Il pieno sviluppo della persona si verifica se il contesto in cui questa vive è favorevole e se la persona stessa riesce a vivere in accordo con tale tendenza. Un organismo pienamente funzionante è quindi in grado di mantenersi in stato di salute o, nel caso questo venga minacciato, di ritrovare la strada verso il benessere e la propria tendenza attualizzante.
Nall’ACP il clima relazionale è caratterizzato da quelle che vengono definite le “condizioni necessarie e sufficienti”: accettazione positiva incondizionata, empatia e congruenza. Si tratta di condizioni grazie alle quali una relazione interpersonale può essere d’aiuto. La messa in atto di tali condizioni consente di provare ad entrare nel quadro di riferimento dell’altra persona, così da accompagnarla con rispetto e calore nell’esplorazione del suo mondo interno e nel suo processo decisionale e di cambiamento, esprimendo al meglio le proprie potenzialità.
L’accettazione o considerazione positiva incondizionata è il riconoscimento dell’umanità della persona e delle proprie motivazioni, indipendentemente dal suo comportamento. L’accettazione riguarda tutti i sentimenti portati dalla persona, sia quelli positivi e maturi sia quelli negativi e difensivi, e tutti gli aspetti della sua personalità siano essi congruenti o incongruenti. Ciò contribuisce a restituire dignità alla persona, che viene accolta in ogni sua sfaccettatura, con ogni sua speranza e ogni sua paura. Si tratta di guardare l’altra persona in modo positivo, senza giudizio, dandole valore come persona. In tal modo questa percepirà un terreno sicuro al puto tale da concedersi di esplorare anche aree negate e distorte, riconoscendo integralmente il suo vissuto.
L’empatia consiste nella capacità di vedere e comprendere la vita attraverso gli occhi dell’altra persona. Fondamentale è la capacità del professionista di non varcare il confine identificatorio del “come se” facendo confusione tra le proprie emozioni e quelle dell’altro. È imprescindibile l’indipendenza emotiva e la sicurezza del professionista stesso, così da non perdersi quando entra nel mondo emotivo dell’altro. L’empatia ha la funzione di riconnettere la persona agli altri dissolvendo l’eventuale alienazione derivata da esperienze dolorose.
La congruenza è la capacità del professionista di essere autenticamente se stesso. Al professionista è richiesto sia di essere profondamente consapevole e ben disposto verso i propri sentimenti sia di poterli comunicare all’altro nel momento in cui si manifestano (trasparenza). Se il professionista è capace di autenticità, monitorando costantemente il proprio modo emotivo e condividendo con l’altro ciò che è funzionale alla relazione e al processo, consentirà alla persona di fare altrettanto. Si realizzerà così un incontro profondo.
La Terapia Centrata sul Cliente (TCC) propone una relazione d’aiuto di tipo “non direttivo”.
Rogers pone al centro la persona in quanto:
- agente di scelte (non può sottrarsi a compiere scelte nella sua vita),
- libera (sceglie e stabilisce liberamente i propri obiettivi),
- responsabile (risponde personalmente delle proprie scelte).
La persona è la migliore esperta di se stessa nel proprio processo di cambiamento verso l’autorealizzazione. Ne consegue che il terapeuta non è “l’esperto”: il suo ruolo non è indicare una strada specifica, bensì accompagnare la persona a far emergere la sua propria tendenza attualizzante. Può accadere infatti che la persona si allontani dalla propria natura positiva e non percepisca più la forza e la spinta verso il proprio potenziale, sviluppando così una versione alienante di se stessa. Ciò può provocare malessere, disagio e sofferenza. Nella terapia si cerca di recuperare una corretta simbolizzazione dell’esperienza rispetto alle proprie emozioni, ai propri costrutti e valori, che nel corso degli anni possono essere stati allontanati al fine di rendersi accettabile agli altri.
Si cerca cioè di costruire significati funzionali al processo di sviluppo della persona stessa.
Strumento di guarigione nella TCC è la relazione, una “relazione che cura”. Come tutte le relazioni, anche quella terapeutica è un incontro in cui si ha bisogno di essere visti, compresi, accolti e sostenuti.
Il clima relazionale garantito dal terapeuta è accettante, facilitante e non giudicante. All’interno di questo speciale clima relazionale si sviluppa una narrazione del sé che permette di acquisire consapevolezza, dare significato alla propria storia e accoglierla, prendersi dunque cura di sé e guarire le ferite relazionali.
La TCC facilita il processo di cambiamento del cliente incrementando il contatto della persona con se stessa, così che possa riappropriarsi di parti di sé distanziate, evitate o distorte, modulare le proprie emozioni, modificare schemi disfunzionali.
L’attenzione del terapeuta non è ai sintomi, ma alla persona, vista nel suo modo di essere, di funzionare, di costruire la realtà, di dare significato alle esperienze e di relazionarsi.
La terapia si delinea come una possibilità esistenziale unica, un processo di apprendimento in cui le coordinate derivano dall’interno della persona stessa. Grazie alla terapia, la persona può ridare significato alla propria storia, dando dignità e senso anche agli eventi più dolorosi, così da percepirsi meno minacciati e impotenti nell’apertura verso il futuro. La terapia è un processo di riappropriazione del proprio potere personale, scandito dagli incontri che avvengono all’interno del clima facilitante, caldo e sicuro, della relazione. Incontro dopo incontro, la persona impara ad applicare a se stessa lo stesso atteggiamento, positivo e sollecito, che il terapeuta ha nei suoi confronti.
In definitiva, la psicoterapia rogersiana è un regolare appuntamento della persona con se stessa.
“…Punto focale è l’individuo, non il problema…
Praticare la terapia non significa fare qualcosa al soggetto,
né convincerlo a fare qualcosa per sé;
si tratta invece di liberarlo, perché possa crescere e svilupparsi…”Carl Rogers, Psicoterapia di Consultazione
Rogers è avverso alla classificazione diagnostica e nosografica. Secondo il suo pensiero, le etichette appiattiscono la ricchezza della persona e sono di intralcio alla costruzione e al mantenimento della relazione terapeutica. Con le comuni classificazioni diagnostiche si corre infatti il rischio di affibbiare etichette che mortificano la ricchezza della persona e ostacolano la dimensione umana del rapporto, senza portare vantaggi dal punto di vista terapeutico.
Rogers crede nel potere personale di ognuno, nel potenziale e nella capacità della persona di essere per se stessa lo strumento migliore di esperienza e di crescita. La diagnosi tradizionale è spesso usata per etichettare e stigmatizzare una condizione che viene così resa definitiva, come se fosse scolpita nella pietra. Quella condizione diagnosticata, però, potrebbe in realtà essere transitoria e funzionale alla persona stessa in una certa situazione. Da qui la necessità di rifarsi al significato letterale del termine diagnosi, ossia “conoscere attraverso”.
La diagnosi diventa così un’opportunità di comprensione del mondo dell’altro. La conoscenza è primariamente della persona, in quanto migliore esperta di se stessa, anziché unicamente del professionista. L’interesse è sul funzionamento della persona, ossia sulla conoscenza e comprensione delle sue parti malate e di quelle sane. I sintomi manifestati sono elementi importanti che parlano della persona, per cui è necessario accoglierli, ascoltarli e comprenderli. Tuttavia il focus non è eliminare il sintomo e risolvere il problema, bensì promuovere nella persona quel cambiamento che gli permetterà di risolvere il problema o riassorbire il sintomo in un funzionamento globale più fluido e articolato, vicino al suo Vero Sé.
Il processo diagnostico avviene all’interno della relazione terapeutica e consente al clinico di comprendere il comportamento del cliente tramite l’accoglimento dello schema interno di riferimento della persona e l’osservazione del mondo attraverso i suoi occhi così da assumere durante gli incontri l’atteggiamento più consono.
Allo stesso tempo, il processo diagnostico in questione permette alla persona che ha chiesto aiuto di definire degli obiettivi per migliorare il suo stato di benessere, potenziare l’uso delle proprie risorse e riattivare la tendenza attualizzante orientata ad una maggiore efficacia di funzionamento soggettivo.
Nell’ACP, dunque, l’attenzione è sulla persona più che sul sintomo e la diagnosi tiene conto del divenire e non dell’essere, in un’ottica fluida più che statica. Sapere che una persona ha un certo tipo di disturbo, può farci supporre una serie di manifestazioni ciniche e sintomatologiche, ma non aiuta a dare un senso alla sua esperienza unica, specifica e irripetibile. L’interesse del terapeuta di orientamento rogersiano è infatti di comprendere “chi” si ha davanti, “chi è la persona” che sta chiedendo aiuto, al di là dei tratti patologici presentati.